È il momento di (ri)cominciare a parlare di genetica?
Dai bambini à la carte ai paparazzi che cercano il Dna delle celebrità si torna a parlare di opportunità e pericoli della manipolazione del corredo genetico. Un dibattito non più rinviabile.
Nel Regno Unito, circa un terzo dei giovani fra 16 e 34 anni sono a favore dei cosiddetti “designer babies”. Bambini à la carte, insomma, di cui si può scegliere prima della nascita, intervenendo sul Dna dell’embione, altezza, colore dei capelli e degli occhi e via dicendo.
Le vecchie generazioni, spiega il Guardian, sono molto meno entusiaste dell’idea. Entrambi però, vecchi e giovani, sono in maggioranza (53%) favorevoli a riscrivere il Dna per prevenire malattie letali o invalidanti.
Lo rivela un sondaggio realizzato da Ipsos per il Progress Educational Trust, una Ong che aiuta chi ha problema di fertilità.
Secondo Kathryn Paige Harden, una professoressa di psicologia dell’Università del Texas, è ormai venuto il tempo di andare oltre il concetto di “genome blindness”.
Cosa significa? Per capirlo, bisogna rispolverare una brutta parola: eugenetica.
L’eugenetica è, in sintesi, lo studio di come migliorare le caratteristiche fisiche e mentali di una popolazione intervenendo sul corredo genetico. In qualche modo ha sempre avuto connotazioni inquietanti, di matrice razzista o di “semplice” disprezzo della classi superiori verso quelle inferiori, considerate portatrici di difetti da estirpare.
Diventa poi particolarmente turpe quando il nazifascismo se ne serve per giustificare le proprie politiche volte a eliminare o sterilizzare i “difettosi”.
Da allora eugenetica è diventata, comprensibilmente, una parola tabù, ed è subentrato il concetto di genome blindness, che Harden descrive come l’idea che non si debba tener alcun conto delle differenze genetiche fra le persone. Lei ritiene invece che siano una delle variabili da considerare.
Nel mettere a punto politiche sociali che aiutino i ragazzi a uscire dalla povertà ad esempio, si dovrebbe tener conto, secondo lei, sia delle condizioni economiche delle famiglie di adozione (in parole povere dell’influenza dell’ambiente) che del corredo genetico.
Un lungo approfondimento, che spiega in dettaglio le idee di Paige Harden e ne mette in luce anche le possibili controindicazioni, si trova sul New Yorker.
Quello che è certo è che, nonostante le tecniche di editing genetico debbano ancora essere perfezionate, uno dei dilemmi che le future generazioni (ma probabilmente già quelle viventi) si troveranno a dover affrontare è come fare a trarre il meglio da queste nuove possibilità (utilizzandole ad esempio, come accennato all’inizio, per evitare, di svilupppare malattie gravi), senza cadere in scenari apocalittici di neo-eugenetica.
E senza lasciare l’intero controllo su di esse a governi e malintenzionati che potrebbero usarli per scopi non propriamente nobili. Il New York Times ha raccontato di recente come la schedatura e l’analisi del Dna della popolazione sia l’ultima frontiera della sorveglianza, per il governo cinese.
In un altro articolo, due professori di Georgia State e dell’Università del Maryland, hanno messo in guardia contro possibili furti di Dna di persone famose operati da “paparazzi della genetica”.
Dal Dna di un Vip, è possibile infatti ricavare molte informazioni utili per articoli scandalistici o, in uno scenario ancor più ipotetico e futuristico, clonare la celebrità in questione.
Non si tratta di dilemmi facili, per cui sia possibile fornire soluzioni chiavi in mano. Di certo non è più possibile, e forse nemmeno consigliabile, far finta che le questioni genetiche non esistano.