Da Hong Kong al Tennessee, i libri fanno (ancora) paura; Facebook in Etiopia
I libri come “tecnologie che danno potere”
Flynn Coleman è un’avvocata per i diritti umani. Si occupa di genocidi, crimini di guerra, crimini contro l’umanità. Robe allegre, insomma. Di sicuro cose che ti spingono a indagare il lato oscuro dell’animo umano, che forse mai come in questo periodo può venire aizzato, esasperato, fatto crescere velocemente.
Come racconto più sotto, è facilissimo spargere odio e violenza semplicemente condividendo una foto e un breve testo e facendolo girare sui social. Ma questo lo sapete già. Nel pezzo che Coleman ha scritto per la Los Angeles Review of Books c’è però quello che non ti aspetti: un elogio dei libri in generale e del libro di carta in particolare.
I libri, dice in sintesi Coleman, sono finestre attraverso cui affacciarsi dentro l’altro. Tecnologie che aiutano a non cadere nella trappola della disumanizzazione, che è di solito il necessario preludio alla violenza. Perché, se accetto che l’altro esista e sia al mio stesso livello di umanità (per quanto diverso da me), diventa difficile odiarlo. Sarebbe come odiare una parte di sé; uno dei tanti sé possibili, incarnatosi in qualcun altro.
Oltre a ciò i libri aiutano e abituano alla concentrazione, a seguire discorsi complessi, in contrasto con l’effimera semplicità dei tweet quotidiani. Ottima notizia quindi che i libri in generale siano fra i pochi oggetti che sono sopravvissuti alla rivoluzione tecnologica senza perdere la propria anima.
Le librerie in qualche modo resistono, la gente legge anzi più di prima. Il problema è che l’autoritarismo di Stato da una parte e le “culture wars” dall’altra spingono sempre di più a mettere all’indice i libri considerati “scomodi”: i libri sulla democrazia a Hong Kong, i fumetti sull’Olocausto, considerati troppo crudi e “osè” in Tennessee.
A proposito, Coleman ha scritto anche lei un libro, si chiama “A Human Algorithm” e parla di come immettere valori “umani” nell’intelligenza artificiale. Dateci un’occhiata, potrebbe valere la pena leggerlo. (via Los Angeles Review of Books)
In Etiopia, la morte corre su Facebook
Ci risiamo. Non è bastata l’indignazione per il ruolo giocato da Facebook nel genocidio etnico dei Rohingya in Myanmar. Adesso la società di Palo Alto è accusata di non fare abbastanza per impedire o quantomeno limitare la diffusione di contenuti che incitano alla violenza in Etiopia. Per chi non lo sapesse, in Etiopia è in corso da tempo una sanguinosa guerra civile, fra governo e gruppi di opposizione armati nella regione del Tigray.
Non si contano i massacri e le atrocità. In tutto questo, un ruolo lo giocano indubbiamente i contenuti postati su FB da cosiddetti “attivisti”. Si spargono notizie false a cui purtroppo la gente tende a credere, dato che non ha altri fonti di informazione. Si narrano presunti crimini della parte avverse e si invita al linciaggio di particolari individui. C’è un tizio in particolare, tale Solomon Bogale, 86.000 follower su Facebook, che pare sia molto attivo in questa “benemerita” opera.
In tutto questo, Facebook cosa fa? Non molto, o non abbastanza, secondo il Bureau of Investigative Journalism. Qualche contenuto viene rimosso, ma l’opera di moderazione e di fact-checking sembra ancora inadeguata rispetto all’entità e alla gravità degli episodi.
Siamo onesti: è un problema molto difficile da risolvere. Occorrebbe stanziare risorse imponenti, ma questa è solo una parte del problema. La principale è che il gioco della polarizzazione e del “conflitto” è parte integrante di come l’algoritmo del network funziona e di quello che porta a generare profitti.
L’algoritmo non distingue se un post che genera decine di like lo fa perché sta celebrando il bikini a bordo piscina di una celebrity o l’impiccagione di un “nemico del popolo”. Puoi intervenire solo a valle, ma spesso è troppo tardi. Più che l’assunzione di migliaia di fact-checker, servirebbe una revisione del modello di business. Che non sembra però all’orizzonte. (via The Guardian).